lunedì 21 dicembre 2015

Dialogo col Campione: Alberto Cova

Alberto Cova è uno degli atleti rimasti nella storia dei 10.000 metri ed è un simbolo dell'atletica italiana.

Alberto Cova è ricordato soprattutto per la conquista della medaglia d'oro alle olimpiadi di Los Angeles 1984. 

Oltre a questo successo nel suo Palmares figurano anche: una medaglia d'oro mondiale, un oro europeo, un oro ai giochi del Mediterraneo e un argento agli europei indoor.








Una delle fatiche richieste a sportivi di primo livello consiste nella gestione della pressione e delle aspettative di tifosi e staff tecnico-atletico. Avevi delle strategie o delle routine di vita per affrontare questi aspetti?

Considerando che stiamo parlando di circa 30/35 anni fa, il sostegno psicologico agli atleti non era una pratica consolidata e sinceramente non avevo o seguivo tecniche particolari. La capacità di gestire la pressione e le emozioni a cui andavo incontro era data dalla mia quotidianità.
Credo di aver maturato questa abilità nel percorso che mi portava ad avvicinarmi all'obiettivo e nella mia crescita durante gli allenamenti. Il condividere le pressioni e le emozioni che questo percorso produceva, sia con lo staff tecnico, che con chi faceva parte della mia vita, credo mi facesse bene e mi desse l'idea che si stava costruendo un risultato di "gruppo". Condividere con altre persone questa strada rende un atleta consapevole di ciò che sta facendo e lo agevola nell'arrivare al meglio al grande evento. Condividere le emozioni e le difficoltà con gli altri fa in modo che la consapevolezza cresca nel tempo, facendo in modo che tu possa usufruire anche delle tue doti mentali quando affronti una gara importante, che vale un titolo o una medaglia.
In una finale olimpica o mondiale, tutti gli atleti sono arrivati per vincere. Le differenze tecniche date dalla condizione fisica o da possibili infortuni, sono minime, quindi l'aspetto mentale diventa fondamentale. Quando entri nello stadio è necessaria una predisposizione mentale che ti porta a pensare che tutto quello che hai fatto porterà a dei frutti. Se entri nello stadio pieno di dubbi, dando spazio alle incertezze, secondo me hai poche possibilità di vincere.
La testa conta sia durante l'evento, che lungo il percorso che ti porta all'evento importante, perchè non sempre le cose vanno come vorresti e non sempre gli allenamenti sono i migliori della tua carriera. Devi però mettere a fuoco che quanto stai facendo porterà a dei frutti e su questo pensiero far leva per ottenere il miglior risultato. La testa ha una grossa percentuale sui risultati, perchè ti permette di sentire che la cosa che vuoi la puoi realmente realizzare. Se ti predisponi in questo modo hai già buone possibilità di ottenerlo.

Mi accennavi che nelle finali mondiali o olimpiche tutti gli atleti si presentano per vincere. A tuo modo di vedere ci sono degli aspetti che distinguono il buon atleta dall'atleta vincente?

Sicuramente la gestione delle emozioni. Entrare in uno stadio con 70.000/80.000 persone è una forte emozione difficilmente immaginabile. Se quando entri nello stadio provi tensione stai già vivendo un momento di difficoltà.
Ci sono atleti che fanno ottimi risultati durante la stagione, ma non riescono a sopportare l'idea di essere protagonisti. Vengono assaliti dai dubbi riguardanti l'essere capaci di affrontare una data situazione e dal saperlo fare al meglio. Questi pensieri, che vai a fare in quelle frazioni di secondo, ti riducono la possibilità di pensare a quello che stai facendo e che devi andare a fare.
Mamede, prima del mondiale di Helsinki dell'83, fece il record del mondo dei 10.000. Un mese prima dei mondiali corse come nessuno prima di lui al mondo. Ai mondiali però si ritirò, perchè non sopportò le tensione di dover dimostrare di essere il migliore.
Io cercavo di arrivare in crescendo agli appuntamenti importanti, avendo dei riscontri sia dagli allenamenti, che dalle competizioni. Arrivavo alle gare con delle certezze e su queste certezze non dubitavo. Chiaramente esistono anche l'aspetto tecnico e tattico, ma quelli che corrono per vincere secondo me hanno una predisposizione mentale favorevole al risultato. 

Se dovessi scegliere di allenare un atleta che si rivolge ai 10.000, quali aspetti mentali, oltre che atletici, andresti a ricercare? Perchè?

Innanzitutto partirei da quelle tecniche. Cercherei di conoscere tecnicamente il mio atleta. Questo è stato l'insegnamento di Giorgio Rondelli, che mi ha allenato. Sicuramente lui ha lavorato moltissimo su quello che era il mio talento tecnico e su quelli che erano i miei punti di forza. Si parte sempre da una base tecnica e poi man mano che si cerca di crescere nell'evoluzione tecnica, si va anche a lavorare sull'aspetto mentale. Giorgio in questo era molto bravo.
Visto che le situazioni impreviste capitano di continuo, credo che giocare sull'imprevisto durante gli allenamenti, stimolando le capacità di adattamento di un atleta a situazioni non conformi e diverse dalla routine. Credo questo sia un bel lavoro mentale e permette di conoscere a fondo la capacità di adattamento dell'atleta. 
L'allenamento solitamente si pianifica per un periodo di tempo di 15 giorni/3 settimane, facendo dei microcicli. Al termine di essi si fanno delle analisi per capire quanto è successo, magari si fanno delle gare per vedere la reazione dell'atleta a livello tecnico e poi si torna a programmare, con l'intento di guardare lontano. In questi microcicli si può far arrivare al campo l'atleta convinto di fare una data sessione di allenamento e poi stravolgergli i piani, anche con scuse banali. 
Un atleta in grado di adattarsi a situazioni diverse è un atleta con una marcia in più. Pensa solo al fattore climatico. Il giorno prima di una manifestazione il tempo è bellissimo, ma la mattina della gara quando ti svegli scopri che piove a dirotto. Le caratteristiche tecniche possono venire messe in difficoltà da una situazione climatica che tu non puoi ne prevedere ne modificare. Devi quindi saperti adattare. Se in quel momento inizi a lamentarti del freddo, della pioggia o che non ti trovi bene non è un buon indicatore. Da allenatore è quindi importante iniziare a conoscere le reazioni dell'atleta, mettendolo in difficoltà. L'analisi della gara avviene successivamente, però in quel momento ti devi adattare. 
Inoltre, credo sia importante lavorare sull'immaginazione. l'atleta deve provare a vivere negli allenamenti quello che poi potrà vivere nella competizione, non solo in termini tattico-tecnici ma anche emozionali. Negli allenamenti più tranquilli o in quelli defaticanti un atleta può immaginare se stesso che taglia il traguardo e che alza le braccia al cielo. In una fase di defaticamento, in cui senti le gambe che girano bene, provi a vivere le emozioni che potresti provare in una vittoria.
Un allenatore può aiutare dall'esterno un suo atleta proponendogli, al termine di un ottimo allenamento, di fare un giro d'onore e di prendersi l'applauso e la gratificazione di un pubblico immaginario. Questo lo aiuta a prefigurarsi ed anticipare dei momenti e delle emozioni, avendole già vissute prima che venga il momento importante, ma con un'intensità inferiore.

In quasi vent'anni di carriera e soprattutto tra l'82 e l'84 hai vinto tantissimo. Credi che nella tua carriera abbiano avuto un ruolo maggiormente importante i successi o le sconfitte?

In egual misura, seppure in termini numerici le sconfitte siano state più delle vittorie. Un aspetto cruciale riguarda l'analisi che delle vittorie e delle sconfitte viene fatta. Nella gestione delle emozioni, ripeto sempre che non bisogna mai essere troppo contenti o scontenti.
Devo analizzare in concreto ciò che è accaduto, andando un pò oltre al risultato fine a se stesso. Posso, ad esempio, aver vinto con tranquillità una gara, ma ciò potrebbe essere dovuto ad una condizione non ottima dei miei avversari o al fatto che che gli avversari stavano puntando altri obiettivi. Potrebbe anche essere che quella gara era particolarmente importante per me e ci sono arrivato ben preparato.
Anche nelle sconfitte è importante comprendere cosa è accaduto nel concreto. Ho perso perchè gli altri stanno andando più forte di me? Perchè la mia condizione non è ottima? Perchè vengo da un periodo difficile o esco da un infortunio? Mettendo insieme questi tasselli, facendo un'analisi chiara e onesta, senza cercare alibi, ho la possibilità di capire dove mi trovo in quel momento e da quel punto partire. Credo quindi siano importanti sia le vittorie che le sconfitte. 
Quando ho vinto il primo meeting internazionale nel 1980 ero felicissimo, ma dal 80 al 82 ho passato dei momenti che non sono stati così felici. Non potevo dire a me stesso che perchè avevo vinto un meeting internazionale avrei vinto gli europei del 82. Ho mantenuto i piedi per terra, ho analizzato nel dettaglio quanto accadeva  gestendo i momenti positivi e negativi e sapendo che l'anno successivo ci sarebbero stati i mondiali.
La forza mia e la forza di Giorgio è stata quella di analizzare le cose come si presentavano, capendo proprio perchè erano accadute in quel modo.

Se ti chiedessi come si costruisce un successo cosa mi risponderesti?

Il successo si costruisce con tanta fatica e tanto impegno. Sono due parole che i miei allenatori, sia quello del settore giovanile Sergio Colombo, che Giorgio Rondelli durante l'attività professionistica, mi hanno ripetuto spesso. Entrambi mi ripetevano che se volevo fare la vita dell'atleta dovevo metterci tanta fatica e tanto impegno. Questa è la base! Se non accetti la fatica e l'impegno e non accetti il percorso connesso alla vita da sportivo professionista non vai molto lontano!
Un secondo punto fondamentale consiste nella pianificazione della tua vita, una volta scelta la carriera da sportivo professionista. Nel momento in cui decidi di cercare di ottenere i risultati che il tuo fisico ti permetterà di raggiungere, devi essere consapevole che questa scelta è tua e la maggior parte delle energie dovrai metterle tu, con fatica e impegno. Gli altri potranno pianificarti gli allenamenti o seguirti a livello fisiologico, ma il resto spetta a te.
Una volta che tu ci sei, consapevole e responsabile della tua scelta, diventa fondamentale avere intorno a te uno staff che lavora con te e per te. Tu sei l'atleta, tu hai il talento da mettere in campo, ma devo dire che nella mia carriera se non ci fossero stati un medico, un fisioterapista, una società sportiva alla spalle, i compagni d'allenamento con cui condividevo la quotidianità e con cui mi confrontavo, probabilmente non sarei arrivato dove sono arrivato. Il talento non basta.
Da solo non vai da nessuna parte. Tu puoi avere delle capacità e delle potenzialità, ma se non c'è qualcuno che sostiene il tuo talento e ti aiuta a metterlo in pratica, non vai da nessuna parte. L'allenatore che da fuori vede, elabora e costruisce è importantissimo. Lo staff che ti aiuta a capire gli aspetti muscolari e fisiologici ha un ruolo centrale nel permetterti di comprendere cosa sta succedendo e permettendoti di stare sempre ad un livello medio alto durante l'anno.

Una frase che appare in alcune tue interviste è la seguente “non mi sono mai sentito in assoluto il più forte, ma sapevo che avrei potuto dimostrarlo”. Cosa comporta questo approccio mentale alla vita di un atleta?

Da giovane ho vissuto l'atletica bene e divertendomi. Crescendo sono arrivato a vincere un titolo italiano giovanile a 18 anni, ho partecipato ai campionati europei giovani e mi sono messo in evidenza senza però vincere gare importantissime. Forse per questo motivo tutti parlavano di talenti rivolgendosi sempre ad altri atleti. Quando, però, ho vinto il titolo italiano under 20, e sono andato ai campionati europei mi son detto "gli altri saranno dei talenti, ma anche io sto facendo qualcosa di buono".
Seppure quando sono entrato nella categoria assoluta il passaggio sia stato molto difficile, riuscivo  a vedere che anno dopo anno c'era sempre una piccola crescita e che le situazioni che pensavo di mettere in pratica si realizzavano. A quel punto ho capito che gli altri potevano anche essere dei talenti, ma se io poco alla volta fossi riuscito ad ottenere il meglio da me stesso potevo costruirmi dei risultati. Questo perchè il mio meglio era alla pari con gli altri e in alcune occasioni anche migliore.
Per fare ciò mi sono analizzato. Ho accettato e preso consapevolezza che alcune caratteristiche tecniche non le possedevo, ma ne avevo altre. Partendo da questa consapevolezza ho cercato di comprendere quali situazioni nello svolgimento di una gara mi favorivano in modo da saperle cogliere. Ci si allena e ci si impegna per anni, ma gli eventi importanti durano un giorno soltanto o solo momenti. In quel frangente devi essere pronto e non un minuto prima o un minuto dopo.
Con Giorgio Rondelli ci siamo detti che non eravamo capaci di fare alcune cose, ma altre sapevamo farle benissimo. Quindi studiando gli avversari, analizzando quali potevano essere le situazioni migliori e sapendo cogliere i momenti favorevoli, anche noi potevamo dimostrare di essere bravi. E così è andata.
Può sembrare semplice, anche se non lo è affatto. Ho cercato di mettere a frutto quelle che erano le mie caratteristiche migliori, lasciando che gli altri fossero talenti.

C'è stata una frase, detta da un genitore, un allenatore o da una persona per te importante, che credi ti abbia caratterizzato come atleta?

Non ci sono frasi che mi hanno caratterizzato in modo particolare, ma se devo risponderti ti dico una frase che mia madre mi diceva come battuta. Una frase non favorevole o propositiva, ma che mi ha spinto molto ad andare avanti. Quando mi vedeva arrivare a casa stanco morto dopo una gara o la sera dopo gli allenamenti mi ripeteva sempre "ma dove vai? Ma che vita fai? Ma cosa hai scelto di fare?". 
Nel '77 scegliere di fare l'atleta professionista invece di andare all'università o invece di andare a lavorare, non era proprio così semplice. I miei vedevano nel primo figlio la possibilità di un ritorno economico per la famiglia e un supporto a quanto loro già facevano. Questo non vuol dire che io non portassi a casa dei soldi, perchè mi sono sempre impegnato affinché qualcosa alla fine del mese arrivasse, ma le 16 mensilità della banca erano un'altra cosa. 
Mia madre mi ripeteva in dialetto brianzolo "sei sempre in giro come uno straccio". Però invece di deprimermi questa frase diventava per me uno stimolo, perchè volevo dimostrarle che quello straccio sarebbe diventato qualcosa di diverso e così è stato. Volevo dimostrarle che si sbagliava. 
Ora mia mamma non c'è più, ma anche se ha vissuto molto bene la mia carriera mi ha sempre sottolineato quanta fatica abbia fatto e questa frase ha continuato a ripetermela anche quando avevo 50 anni.

Oggi sei uno stimato professionista nella formazione aziendale. In che modo lo sport e l'essere stato uno sportivo professionista ti ha aiutato nel proseguo della tua vita lavorativa?

Devo dire molto, se non quasi tutto. Le attività che ho intrapreso dopo l'atletica hanno sempre avuto una connotazione sportiva. Diciamo che il significato dello sport mi ha sempre accompagnato nella mia quotidianità. Oggi forse più che in altre esperienze professionali, perchè racconto me stesso. Racconto la mia esperienza e cerco di tradurla in contenuti formativi, dando degli strumenti alle persone per vivere meglio la loro carriera professionale e perchè no, la loro vita personale. 
Credo ci siano moltissime analogie tra il mondo dello sport e la vita di tutti i giorni. Molti pensano che lo sport sia qualcosa di diverso da ciò che accade nella vita quotidiana. Vedono quanto accade nelle grandi competizioni, focalizzando la loro attenzione solo sulla parte finale della vita di un atleta. Va invece detto che le analogie sono notevoli, perchè uno sportivo è una persona come le altre che compie delle scelte. Ciò che cambia è l'emozione connessa ai risultati ottenuti, emozione che poi condivide con gli altri.
Fornire agli altri, attraverso il lavoro che svolgo con Samuele Robbioni, la possibilità di utilizzare in modo proficuo le loro emozioni, di utilizzare in modo pieno le loro capacità e quindi fare meglio, credo sia una cosa bella e importante. Ormai svolgo questo lavoro da 10 anni e i riscontri che vedo sono fantastici e mi arricchiscono come persona.

A livello di abilità, credi che la tua vita da sportivo ti abbia temprato? Utilizzi le abilità sviluppare nella vita da sportivo nella tua vita professionale?

Cerco di mettere in pratica tutti i giorni quello che ho imparato. Una delle cose che mi riesce meglio, forse per una predisposizione caratteriale o forse perchè l'ho imparata dai miei genitori, trasportandola poi nello sport, è la cura dei dettagli. 
Quando ero un atleta curavo nei dettagli ogni minima cosa. Avevo un'attenzione maniacale su tutto, a volte, anche "rompendo le scatole" a chi mi stava intorno. Quella era una delle mie caratteristiche fondanti. Credo questa capacità mi sia stata utile sia nel comprendere gli avversari, sia nel decidere le tattiche di gara. Tutti, giocando sul fatto che ero diplomato in ragioneria, sostenevano fossi il "ragioniere dell'atletica". Credo che per ottenere i risultati che ho ottenuto, non lasciare niente al caso ha giocato un ruolo fondamentale.
Questo aspetto mi è rimasto anche oggi. Se una cosa non mi piace devo dire la mia, anche se il lavoro non mi riguarda completamente.

Ritieni che nell'atletica italiana sia sufficientemente curato l'aspetto mentale o credi si possano apportare dei miglioramenti?

So che ci sono professionisti che curano l'aspetto psicologico e credo a livello professionistico sia necessario. Non vedo però una conoscenza approfondita di cosa significhi fare l'atleta da parte dei ragazzi che si affacciano a questo mondo.
Un ragazzo di 16/17/18 anni che si avvicina a fare l'atleta deve sapere che questa è una scelta professionale e di vita. In questi momenti è quindi molto importante che ci sia un supporto nel compiere questo tipo di scelta. Bisogna comprendere se una persona vuole veramente fare questa scelta. A volte un ragazzo realizza qualche risultato e per inerzia continua a fare l'atleta senza considerare che forse non gli piace particolarmente o che addirittura non è particolarmente portato a questa professione. 
A complicare questa situazione si aggiunge che noi seguiamo solo chi da giovane raggiunge dei buoni risultati e viene quindi considerato un talento. Purtroppo in quella fascia d'età possono esserci dei talenti che non si sono ancora espressi o potrebbe essere che un sedicenne che ottiene dei buoni risultati non è portato per la vita da atleta. Facendo mente locale, molti degli sportivi che nell'atletica hanno vinto le olimpiadi e che hanno più o meno la mia età vengono da percorsi e scelte di vita compiute quando non erano assolutamente certi di diventare campioni. Molti atleti italiani diventati campioni olimpici in giovane età non sono stati considerati dei talenti nel periodo giovanile.
Cosa significa poi avere talento? L'atleta di talento è uno sportivo capace di costruire le proprie capacità e i propri punti di forza nel tempo. Agli atleti va fatto scoprire il loro talento. Non basta dire ai ragazzi che hanno talento e che diventeranno dei campioni. Devi farglielo capire lungo il percorso.
Sarebbe importante lavorare su questa fascia d'età per accompagnare un numero maggiore di persone ad un età matura in cui possono compiere una scelta importante e difficile come quella di diventare uno sportivo professionista. Per vincere una medaglia è importante che ci sia una base ampia e di livello medio-alto. Solo in un contesto di questo tipo ci può essere un picco. Un supporto psicologico sarebbe quindi importante e andrebbe affiancato al lavoro prettamente tecnico.
Considerando poi che oggi un ragazzo oggi ha la possibilità di conoscere una miriade di alternative alla vita sportiva, lavorare con questa fascia d'età diventa ancora più importante. Un tempo quando trovavi un'attività che ti piaceva la portavi avanti, perchè ci stavi bene e perchè l'avevi scelta. Non mollavi facilmente. Oggi i ragazzi cambiano spesso idea, ma nello sport se non hai scelto ancora una strada definita quando hai 22 anni diventa molto difficile.

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